Seppi l’accaduto col mezzo d’un amico di Domenico.
La sera si mostrò tristissimo, e tanto poté in lui il timore di vedersi escluso da casa nostra, che usò degli sforzi penosi per evitare di mirarmi. Coll’andar de’ giorni crebbe talmente la sua tristezza, che il padre, affine di distrarlo dalla passione che lo consumava, gli ordinò di partire per Napoli.
Impallidì Domenico all’ingrato annunzio: proruppe in lagrime, supplicò, implorò, cercò, per ottenere la revoca dell’ordine fatale, tutti mezzi che l’amore seppe suggerirgli. Il padre mostrossi inesorabile; talché, quand’ebbe il giovane esaurite le più affettuose preghiere, si alzò di bello, e corse a chiudersi nella sua stanza, dove per due giorni rifiutò qualunque alimento, e donde non uscì se non rassicurato dalla promessa della madre, che gli sarebbe stato permesso rimanere in Reggio.
Allora solamente lo rividi. Com’era pallido e sparuto! Ma l’amor puro si pasce di dolore, si compiace nell’afflizione, si riconforta all’aspetto delle lagrime. Lo ringraziai delle sofferenze, per amor mio sostenute, con un mesto sorriso degli occhi: egli mi ricambiò con un sorriso mesto delle labbra: così entrambi ponemmo in obblio le nostre pene,
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Pieni dell’ineffabile dolcezzaD’un comune pensier ch’altri non scerse.
Senonché da lungo tempo aveva avuto occasione d’accorgermi esser Domenico di carattere eminentemente geloso. Bastava che qualche giovine sedesse al mio fianco un solo istante, o che a bassa voce mi avesse rivolta una parola innocente, per veder il suo volto mutar di colore, e le sue pupille passar di repente dall’espressione soavissima alla feroce, mentre il movimento delle sue labbra indicava il rimprovero.
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