Una voce mi scosse:
«Signorina, poiché il vostro cavaliere è assente, vorrete gradire il braccio mio, invece del suo?».
Alzai gli occhi: era quel desso, che aveva detto a Domenico sentir particolare simpatia per me... Oh, Dio, quale imbarazzo! Come fare per disimpegnarmene? Restai in forse, se accettare, o bruscamente ricusare. Mia madre mi guardava fissa; parecchi altri signori avevano udita l’offerta.
L’urbanità, la confusione, il timore prevalsero. Gli porsi il braccio per metà, come se paventassi qualche contagio, e seguitai il cammino senza far motto.
Allo svolgere della strada, non ostante l’immensa calca di gente, chi mi veggo innanzi? Domenico. Egli moveva alla volta mia.
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Il lividore di un morto è forse minore di quello che copriva il suo volto: aveva l’aspetto d’un vampiro infuriato.
Guardò biecamente, ferocemente il mio compagno, indi, volto quell’occhio terribile sudi me, avventossi, come per atterrarmi, pronunziando parole inintelligibili.
Misi un grido. Il frastuono della strada, per buona fortuna, lo coprì.
Frattanto la folla mi aveva separata da Domenico, e siccome opposte eran le vie che facevamo, egli tirò per la sua, noi proseguimmo la nostra. Non perciò sedato fu il mio spavento, ché anzi, consapevole dell’impetuoso carattere dell’innamorato, temetti non ritornasse munito di un’arma micidiale, onde attentare alla mia od alla vita del povero giovine.
Mi quetai un poco, soltanto quando fui giunta alla Borsa. Entrata nella grande sala, dissi a Paolo sotto voce di seguirmi al balcone, ed ivi gli narrai l’accaduto; al che, mostratosi questi dolentissimo, disse di volere mettervi pronto riparo, correndo immantinente in cerca dell’amico suo, e rappresentandogli la mia innocenza.
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