Lunghissimi erano i miei capelli: le treccie, svolte nella corsa, mi pendevan disordinatamente sugli omeri.
Mi sentii leggermente tirare per la chioma. Mi volsi: era Domenico, il quale a voce sommessa mi sussurrò all’orecchio:
«Benedetti i terremoti, che mi danno il contento di rivederti, e darti un altro addio»
«Ritornerai presto?»
«Sì, cara: mi tratterrò in Napoli un mese solo».
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Il tuono fermo di questa promessa era in contrasto col suolo, che tuttavia oscillava sotto l’impulso del tremendo fenomeno. Le genti fuggivano a tutta possa dalle case loro. Il fragore che facevano i camini precipitando a terra da’ tetti, gli urli, le preci, gli ululati de’ cani, il cantar de’ galli assordavano l’aria; perfino gli uccelli, spauriti dalla catastrofe, avevano abbandonati i nidi, e volavano e rivolavano sul nostro capo, mandando striduli lamenti. Era insomma una scena di spavento universale, di scompiglio, di desolazione, da non essere giammai cancellata dalla memoria.
Domenico si accostò a mio padre, e lo salutò; egli l’accolse garbatamente, ed entrò seco lui in discorso per quasi un’ora, durante la quale le scosse di tremoto incessantemente si succedevano. Avendo però fermo di partire prima del levar del sole, e veggendo che l’alba già incominciava ad infiammare l’oriente, mi chiese la mano, la strinse teneramente, poscia su quella di mio padre impresse un bacio rispettoso. Nel passare dinanzi a mia madre, la salutò del pari. Costei lo chiamò.
«È egli vero, signor Domenico, che siete in procinto di partire?
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Domenico Napoli Domenico
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