Egli ci vide, e credette di sognare.
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Si fermò sbalordito mirandoci, esaminandoci; la gramaglia onde eravamo avvolte lo gettava nello stupore. In questo mentre, affacciatasi pur la madre, comprese egli dalla presenza di lei che nel padre mi aveva colpito il destino.
Entrare nell’istante in un caffè, strappare una carta dal portafoglio, e mandar a mia madre un biglietto, chiedendo il permesso d’informarsi personalmente delle nostre vicende: fu l’affare di un attimo.
Nel rivederlo, non potei frenare il pianto; egli unì la sua alla nostra commozione. Si trattenne lungamente con noi, e nel lasciarci disse, come la nostra disgrazia non poteva alterare i suoi sentimenti per me, anzi reputava propizia quell’occasione per sollecitare l’imeneo: che non appena avessimo sbrigati i nostri affari, e fossimo restituite in Reggio, ci avrebbe seguitate, per fare a suo padre solamente atto rispettoso richiesto dalla legge, in caso che questi insistesse nel suo proponimento di non acconsentire alla nostra unione.
Dopo tali assicurazioni, mia madre gli permise di venire a trovarci tutte le sere.
Molti giorni scorsero intanto prima che avessimo potuto avere udienza dal re: ottenutala, Ferdinando accordò a mia madre una pensione di grazia. Dall’altra parte una domanda di matrimonio veniva avanzata per Giuseppina.
Questo secondo incidente pose ritardo al nostro ritorno a Reggio, dappoiché gli apparecchi del maritaggio richiedevano la presenza di mia madre in Napoli. Eravamo già alla metà di novembre, e gli sponsali non potevano aver luogo prima del seguente gennaio.
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