Più volte intanto scrisse Domenico a mia madre, assicurandola in ogni lettera d’aver dato qualche nuovo passo innanzi al tanto sospirato matrimonio; suo padre mostrarsi tuttavia avverso, ma non potere finalmente, che cedere alle preghiere del figlio, e all’intercessione autorevole dell’avo. Dal suo stile però traspariva, che, per la mia prolungata assenza, agitato era di nuovo il suo spirito dal demone della gelosia. Pochi giorni dopo ci perveniva un’altra lettera, seguita da un poscritto a me diretto, nei seguenti termini:
«Cara Enrichetta, nociva è all’amore l’aria di Napoli. Il fascino di quella città non mi lascia pace sul conto tuo. Ritorna presto, se mi ami di verace amore... Ma se nel ricevere la presente non t’affretti a raggiungermi qua, io mi crederò sciolto dai giuramenti a te fatti».
Nel leggere queste parole, mia madre montò sulle furie, e senza permettere a me di dare risposta alcuna, senza prendere in considerazione l’indole sospettosa di Domenico, pigliò la penna e scrisse:
«Signore, voi pretendete d’imporre leggi a mia figlia prima di averne il diritto; essa non è vostra, né sarà vostra giammai. Sia da questo punto troncata ogni trattativa di matrimonio fra voi due».
Le mie suppliche, le mie lagrime non giunsero a tempo. La lettera era già partita; Domenico non iscrisse più. Però nel fondo viveva tuttora la speranza, che quando sarei ritornata in Reggio l’affetto dell’amante si sarebbe rinfocolato, seppure il freddo soffio della gelosia non avesse avuta la forza di spegnerlo.
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