Mia madre aveva avuto cura di coprirmi il volto d’un fitto velo, acciocché il mio pianto non divenisse lungo la via argomento di pubblico spettacolo: nondimeno il fazzoletto, che spesso mi portava agli occhi, facea volgere la gente verso di me, siccome conobbi, ad intervalli, dalle osservazioni delle persone che m’accompagnavano.
Giunsi intanto al luogo prefisso.
Le porte si spalancarono: orride fauci di mostro. Mi sentii di repente aggraffata per le mani, spinta, urtata alle spalle, trascinata non so dove: udii stridere con sinistro cigolìo i catenacci, che risbarravano l’orribile porta; mi fu strappato il nastro che fermava il cappello, tolto lo scialle... ed allorquando cominciai a discernere partitamente gli oggetti, mi trovai inginocchiata innanzi ad un grande cancello di legno dorato.
Era il coro!
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Una monaca mi disse:
«Ringrazia Iddio del benefizio di averti condotta in luogo di salute!».
Non risposi, né ringraziai. Essendo in me ritornata la ragione, per poco smarrita, un’idea trista mi balenò al pensiero.
Il presagio, ahi! troppo presto avverato, del moribondo mio genitore.
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VIL’abbandono
Come fui uscita del coro, dissero di volermi menare intorno pel monastero.
Chiesi di mia madre: mi fu detto che, per non tenere impediti il generale e la contessa mia cugina, mi aveva lasciata, ma che non avrebbe mancato di tornare il giorno appresso.
Due giovani monache sorelle mi accompagnavano: chiamavansi Concettina e Checchina. Io aveva bisogno d’aria: l’ambascia mi toglieva la respirazione; accolsi adunque il loro invito di farmi veder nel monastero loro ciò che eravi di notabile.
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Iddio Concettina Checchina
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