Fui assalita da convulsioni.
Quand’ebbi ricuperati i sensi e riaperti gli occhi, mi vidi circondata da uno stuolo di monache, di converse, di educande, tutte straniere a me, tutte intente a pascere l’ozio, la curiosità, l’apatia, proprie alla loro condizione, nello spettacolo del mio abbattimento. Chi bisbigliava di qua, chi commentava di là, chi dall’altra parte componeva il viso al sarcasmo; non una sola di esse che mi volgesse un accento di sincera carità. Il medico Ronchi, che allora entrava nella porteria, essendo uno dei curanti della comunità, mi fece somministrare pronti rimedi. La febbre, che mi sopravvenne, mi confinò in letto per più d’una settimana.
Quando il destino è avverso, concatenate vengono le disgrazie. Di lì ad un mese incominciai a persuadermi ch’era pur troppo reale anche l’abbandono di Domenico. Nutriva sino allora in quel mio sepolcro la dolce speranza, non solamente di ricevere qualche sua lettera, ma sì ancora di vederlo ritornato in Napoli, e farsi il mio liberatore. Se uguale al mio era l’affetto suo, se generosi sentimenti albergavano nel petto suo, se la voce dell’umanità gli favellava in cuore, se la reminiscenza della mia verace e costante devozione poteva nell’animo suo più che il vile interesse, come avrebb’egli tollerato ch’io cadessi vittima della giuratagli fedeltà?
Quante volte guardai dal coro della chiesa per vedere se vi era! Quante volte dall’alto dei belvederi con febbrile ansietà slanciai lo sguardo in cerca di lui lungo le vie circonvicine!
| |
Ronchi Domenico Napoli
|