Spesso, delusa dalle sembianze, dall’andatura, dal vestiario di chi parevami che gli somigliasse, mi sentii in procinto di svenire, credendo che giunto fosse il momento del mio riscatto.
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Ma, ohimè! né egli direttamente m’indirizzava due linee, né mia madre nelle sue lettere mi faceva motto di lui. Vedeva di tratto in tratto Giuseppina, ma la presenza di questa diletta sorella non facevi ogni volta che aumentare le cagioni del mio dolore. L’infermità alla gamba, provocata dalla caduta, erasi col cambiamento dello stato dichiarata incurabile, talché, per muoversi, la misera era costretta di appuntellarsi alle gruccie.
Veniva pur talvolta a porgermi pietoso conforto il generale Salluzzi, cui tributo figliale gratitudine. Gli altri parenti, l’amante, gli ottici, non si rammentavano più dell’orfana. Sarebbesi detto che già un abisso mi separasse dal mondo intero, a dispetto de’ concenti umani, che tuttora echeggiavano teneramente dentro l’animo mio.
Se non che, nel mezzo di tanto abbandono, una consolazione sublime rattemprò le mie pene: l’elevazione dello spirito a quel Dio della carità, che volle nascere, vivere e morire, non già per i muti orrori del deserto, né per l’inanimata solitudine, ma sibbene per la salute dell’umanità, in civile e vasto consorzio tenuta da una sola ed indivisibile legge di connessione.
Una sera di febbraio mi trovai sola sul terrazzo. I raggi del sole morente non isplendevano più che sulla cima del Vesuvio e sulle vette di Castellamare, le cui nevi ripercuotevano un chiarore, che respingeva il progresso dell’oscurità. Regnava intorno un insolito silenzio; lo schiamazzo del carnevale aveva attirate le genti ne’ centri più frequentati della città, per modo che il quartiere di San Lorenzo, ove ergesi il monastero, restava del tutto spopolato.
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