Venuto l’indomani il confessore, e fattolo partecipe delle pene che mi angosciavano, egli mi dichiarò che nel monastero faceva mestieri comunicarsi quasi tutti i giorni. Lo supplicai di volermi esentare da tale usanza, credendo di non potermi accostare al divino benefizio, senza far precedere la confessione.
Ebbi in risposta, che sul principio almeno dovessi comunicarmi due volte per ogni settimana: più tardi poi mi sarei conformata alla comune consuetudine.
Poiché scesi nel comunichino, la conversa di mia zia Lucrezia suonò il campanello per far venire il prete colla pissida. Era un uomo di 50 anni incirca, di forte corporatura, rubicondo in faccia, con un tipo di fisonomia altrettanto volgare quanto ributtante.
M’appressai al finestrino per ricevere l’ostia, chiusi naturalmente tenendo gli occhi.
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Posta che mi fu sulla lingua la particola, e nell’atto stesso di ritirarmi addietro, sentii sulla guancia diritta l’impressione d’una mano che mi carezzava. Aprii gli occhi; il prete aveva già ritirate le dita. Credetti d’essermi ingannata, né ci pensai più.
Al giorno della seconda comunione, dimentica di quanto era avvenuto nella prima, io riceveva la particola ad occhi chiusi, secondo il precetto.
Questa volta sentii stringere leggermente il mento, e nel riaprire gli occhi, vidi il prete guardarmi fiso fiso, e colle labbra propense all’ilarità.
Non vi era più dubbio: la carezza della prima, la stretta della seconda volta non erano effetto del caso.
La donna, figlia d’Eva, è più dell’uomo punta dalla curiosità. Mi venne in mente di collocarmi in un sito appartato, donde potessi scorgere se il prete libertino soleva far lo stesso alle monache; lo feci, e rimasi convinta, che le sole vecchie andavano immuni da quella carezza; tutte le altre lo lasciavano fare a suo agio, anzi nel dipartirsi gli facevano la riverenza.
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Lucrezia Eva
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