Così feci, ed essa se ne partì senza di me.
Ma da lì ad otto giorni con una lettera fulminante mia madre protestava di non voler sopportare in pace la mia disubbidienza. Ella erasi trasferita a Messina per ricevermi, e non avendomi incontrata, come s’aspettava, era montata in furia.
Non basta questo. Il ministro di polizia citava nello stesso tempo mio cognato, per indurlo a farmi subito partire, conforme al volere di mia madre.
«Cara cognata» mi disse quest’uomo dabbene, dopo l’avvertimento ricevuto: «vi ho offerta di buon grado l’ospitalità in mia casa, ed avrei seguitato a ritenervi con piacere, se vostra madre non ne mostrasse rincrescimento; ora, nel modo che le cose vanno, spiacemi di dirvi che non posso resistere agli ordini di mia suocera».
Io era recisamente licenziata.
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Che fare? Dove andare? A chi ricorrere? Mi trovava in un bivio terribile. Un carcere a destra, un altro a sinistra, e d’ogni intorno l’abbandono e la desolazione!
«Dio mio!» diceva a me stessa, non potendo contenere le lagrime: «che mai sarà di me, priva, come mi trovo, di mezzi, priva d’ogni appoggio, priva per fino della mia volontà? Se un destino crudele muove tutto a congiura contro di me, non v’ha almeno qualche legge pietosa che mi difenda?».
Fu suonato all’uscio: era un amico di casa settuagenario, curvato sotto il peso degli anni. All’udir l’accaduto, quel buon vecchio mi esortò a ritornare nel monastero, finché, diceva, fosse dissipata la tempesta che addensavasi sul mio capo; più tardi poi si sarebbe cercato di rappattumare la madre con me.
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Messina
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