Ma di repente un triste pensiero m’assalì.
«Cotesto filosofo, che sugl’incanti della solitudine a larga mano profonde i fiori dell’eloquenza, era egli infatti il mio compagno di prigionia? Era egli stato, per forza superiore ed ineluttabile, costretto, al par di me, a consumare il suicidio della propria volontà? Egli, che con tanto ardore decanta i vantaggi del ritiro, conosce forse come sa di morte la solitudine, quando priva è d’affetti, di vincoli, di memorie, d’aspirazioni; la solitudine, sfrondata da ogni germolio d’amore, impastoiata da mille pratiche, l’una più servile dell’altra, sentenziata a perenne ed ignobile sterilità?».
Ricaddi più che mai nell’abbattimento. Una mano di ferro m’adunghiò alla gola: credetti di restarne soffogata.
L’orologio del vicinato aveva già suonato il tòcco dopo la mezza notte. Richiusi il libro, spensi il lume, e spalancai la finestra in cerca d’aria.
Era il cielo velato da foschi nuvoloni, vaganti a seconda del vento. All’estremo orizzonte qualche stella romita avventurava un raggio, offuscato dalla caligine; e la luna, involta pur essa nella nebbia, batteva con incerta luce le mura del monastero. Alcune goccie di pioggia, che di tratto in tratto scrosciavano sul lastrico, interrompevano per un istante il vasto silenzio, e poi tutto rientrava nella muta solitudine.
Mi venne in mente di scrivere a mia madre una lettera grondan-
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te dì lagrime. Riaccesi la lucerna, ne gettai lo sbozzo sulla carta, ma troppo agitato giudicando lo stile, lo stracciai subito.
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