A queste riflessioni la poveretta si diede a piangere e singhiozzare dirottamente.
Il turbamento di quell’ottuagenaria, la sua somiglianza col mio adorato padre, al quale io non aveva cagionato mai il menomo cruccio, queste cose mi scossero. Veggendo ch’ella non si dava né pace né tregua, e andava ripetendo lamentevolmente: «Ahimè, quale tremenda sventura! Quale vergogna!» le presi una mano fra le mie, e dando allora libero sfogo al dolore, «Amata zia,» le dissi, «ricoricatevi, e datevi pure pace: contro il destino mio non mi rivolterà più».
Alzò la testa, mi guardò fissa: io, senza prender fiato:
«Sì» le soggiunsi, «mi farò monaca. Mi costerà la vita: una
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disgraziata di meno: ma non amareggerò per certo gli ultimi giorni di vita della sorella di mio padre!».
Non potei andar oltre, perché la foga dei singhiozzi mi soffocò le parole. Restammo entrambe abbracciate per qualche tempo senza dir motto. Alfine riprendendo essa il discorso, e sul mio capo poggiando la santa reliquia che pendeva al di lei collo:
«Sta’ tranquilla, figlia mia» mi disse. «Iddio e il nostro patriarca ti sosterranno in questo sagrifizio. Pregherà dalla mattina alla sera per farti venire la vocazione che ti manca, e sarò esaudita».
Volle da me la promessa di non ripetere a chicchessia gl’incidenti di quella notturna conferenza, e lo promisi.
Il mio sagrifizio da quel momento era consumato: mi considerai una vittima.
L’ingresso del giornalismo è interdetto nel convento. Ciò nondimeno, tiratami il canonico in disparte la seguente mattina, mi pose sott’occhio due giornali, umidi ancora dalla stampa, ove davasi al pubblico la notizia della mia deliberazione.
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Iddio
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