Era la voce dell’innocenza che gridava alla barbarie.
Mi volsi a quella parte: una signora imbavagliava la bocca della fanciulla col fazzoletto. Mi corsero le lagrime agli occhi, asciutti fino a quel punto.
Arrivai all’altar maggiore. Il vicario, che funzionava, essendo infermo il cardinale, stava seduto dal lato dell’Epistola. Ivi, io e le dame rimanemmo per pochi minuti genuflesse; poi mi menarono al vicario, e mi posero ginocchione ai suoi piedi.
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Un prete, dalla cotta superbamente ricamata, presentògli un piccolo bacile d’argento con forbicette, con le quali mi recise una piccola ciocca di capelli.
Mi rialzai allora; e fiancheggiata dallo stesso corteggio, preceduta dalla banda che suonava, uscìi nuovamente della chiesa. Il tratto di strada, che da questa mena alla porteria, fu fatto da tutti a piedi, in mezzo ad una fittissima calca di curiosi.
Appena posi il piede sulla soglia della clausura, proruppi in uno di quei pianti sfrenati, che non può forza umana contenere: e le monache a chiuder tosto le porte, ad internarmi sollecitamente, adirmi in coro:
«Non piangere, per carità! Altrimenti diranno i secolari, che non ci monachiamo per vocazione, ma per forza... Zitto, zitto, per carità!».
Scesi al comunichino. Il vicario, i canonici, i preti e gl’invitati erano tutti affollati presso al cancello. Ivi, condotta in un angolo, fui per mano delle monache spogliata via via degli abiti di gala, del velo, della ghirlanda, dei guanti e perfino dei calzarini.
Quando in vesta di lana nera, colla chioma scarmigliata, cogli occhi tumefatti dal pianto m’accostai al portellino del comunichino, intesi tra la folla alcuni gemiti, provocati dalla commozione.
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Epistola
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