Non rimessa interamente, un giorno stramazzò a terra. Al rumore della caduta, accorsa una giovine conversa, e trovatala sola, tutta intrisa di sangue, la sollevò da terra e la ripose sul letto.
Per quest’atto doveroso fu sgridata dalla superiora.
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«Doveva dunque lasciarla morire in terra?» domandò la conversa.
«Dovevi chiamare un’altra signora ritirata; quelle della stessa classe se la intendono meglio tra di loro».
Né meno prive di misericordia e di compianto sono le esequie delle monache. Un lutto sincero, un rimpianto cordiale, il tributo di alcune lagrime sulla tomba di una defunta compagna, sono in convento fenomeni più rari di quello che nel mondo lo siano le commozioni suscitate dal teatro. L’apatia, che presso gli stoici era virtù, presso le monache è effetto di calcolo e d’egoismo. E uso sotterrare le morte per lo più nella mattina: non sì tosto il cadavere è calato nella fossa, suona il refettorio, e guai alle converse, se, per motivo del funerale, i consueti maccheroni hanno avuto soverchia cottura!
Bastano questi cenni intorno alla carità per le inferme ed al rispetto per le morte: ora riferirò qualcosa di relativo ad un’altra specie di carità.
Una contadina chiuse nel chiostro la propria figlia, graziosa giovinetta di diciott’anni, non volendo darle per sposo il giovane che quella amava. La badessa, condiscendente verso quante avevano voto nella elezione triennale, usò massimo rigore a quella contadinella, non propensa alla schiavitù monastica, ed ancor meno avvezza all’atmosfera non ventilata del convento.
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