Ma il suo contegno entrò coll’andar del tempo in una fase diversa.
Mi fu detto la sera della mia vestizione avermi dessa apparecchiato un piccolo dono, e voler sapere se l’avrei accettato di buon grado. Risposi che ad un fatto passato non pensava più.
Angiola Maria venne da me tutta ben vestita e adorna, mi pre-
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sentò il regalo (è questo uso del monastero nei giorni di vestizione o di professione), e si estese in iscuse sull’avvenimento che mi aveva crucciata seco lei. Le ripetei aver posto il tutto in dimenticanza. Da quel giorno avvenne in lei una metamorfosi: l’orso diventò agnellino. Ogni volta che m’incontrava, atteggiavasi d’insinuante mansuetudine, chiedeva conto della mia preziosa salute, cercava l’occasione di prestarmi i suoi servigi, e se io era indisposta, impadronivasi della mia stanza per tenermi compagnia.
Ciò nonostante, i suoi discorsi mi stuccavano oltremodo, e il suo sguardo equivoco mi spaventava. Ragionava essa perpetuamente del suo confessore, vagheggiava le proprie forme, il buon gusto del suo vestire, e di tratto in tratto lagnavasi del tradimento fattole dalle due converse della zia Lucrezia, tradimento (a suo dire) tramato ed eseguito con lo scopo di strapparle la sua diletta ragazza, ch’era io. Insomma mi confermava ogni giorno più nell’opinione, che il cervello di quella femmina non si trovasse nello stato normale.
Di lì a qualche tempo, lo sconcerto mentale dispiegavasi in un modo orribile.
Alzavasi di notte tempo, per vagare a guisa di spettro, ricusava il cibo, e cadeva ora in isconcie farnetichezze, ora in una cupa fissazione, che prolungavasi fino ad otto o dieci giorni.
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Maria Lucrezia
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