«Cerca tu stessa di calmare i suoi furori» mi rispose... «ascolta meglio la voce tua».
«Mi credete dunque maestra di pazze? O pensate ch’io debba starla a badare giorno e notte?»
«Non importa: ci penserà la Madonna» soggiunse la sciocca superiora.
L’affare, frattanto, facevasi sempre più serio. A dispetto della disciplina, Angiola Maria si era lasciata crescere i capelli, e, deposto il velo e il soggolo, dividevasi la chioma all’uso secolaresco, dicendo di voler uscire del convento per cercarsi un marito.
«Voi mi dite pazza» gridava ne’ momenti del parossismo alle monache che la circondavano: «no, non sono io la pazza, per voler marito; pazze, dementi, forsennate non siete voi piuttosto? Voi che, possedendo giovinezza, ricchezze, beltà, e quindi potendo trovar marito più agevolmente, vi state, per mancanza di consorte, intisichendo in questa spelonca? Seguite l’esempio mio, seppur avete in zucca un grano di cervello: buttate via le cocolle, e lasciatevi crescere le treccie, Ut sitis filii patris vestri, qui in caelis est: qui solem suum oriri facit super bonos et malos».
Altra volta, malgrado l’intenso dolore che accusava all’occipite, componevasi in goffi e sguaiati atteggiamenti, o, sgambettando, e scontorcendosi, e crocchiando il dito medio sul pollice, in modo da imitare il ritmo delle castagnette, intuonava con voce stridula e dissonante le strofe di quella canzonetta in dialetto napoletano:
Guè Mà, ca cchiù non pozzoMenà sola sta vita:
Io voglio fà la zita,
Me voglio mmaretà.
Me faje fà vicchiarelle,
| |
Madonna Angiola Maria
|