Angiola Maria non aveva riconosciuta la mia voce allorché le intimava di aprire; la riconobbe nei gemiti dell’attacco nervoso. Spalancò allora la porta con fracasso, e uscì in camicia.
Vedutami in quello stato, scostò furiosa quelle che mi stavano attorno; indi, con erculea forza sollevatami nelle sue braccia, mi portò sul mio letto, ove mi profuse le più tenere cure.
Quando ricuperai i sensi e la parola, la sgridai fortemente per quello che aveva fatto. Ella, sulle prime, mi ascoltò commossa, ma, ricaduta bentosto nel furore, si lacerò a pezzi la camicia, lo che la fece restare completamente ignuda, e andò a chiudersi di nuovo nella sua cella.
L’imputazione appostami da Paolina, mi aveva di molto mortificata, benché nuovo non mi fosse il disamore delle giovani monache. Per riconquistare la perduta tranquillità e viemaggiormente scostarmi da persone cresciute ed allevate nel chiostro sin dall’infanzia, per conseguenza digiune d’ogni rudimento di civiltà, profittai dell’opportunità che la matta trovavasi rinchiusa, onde trasferire il mio letto nella stanza della zia; io sapeva altresì che la conversa, memore tuttavia dei trascorsi dissapori, non poneva il piede giammai in quella stanza.
Un’ora dopo, la pazza riapre la porta: era vestita per metà. Entra nella mia camera, che dalla sua era separata da altre quattro, e non
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trovandovi più né me né il mio letto, mette orribili strida: indi, trasportata dal furore, impugna un coltello a punta acuta, e misurando a precipitosi passi il corridoio del dormentorio, urla spaventevolmente:
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Maria Paolina
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