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      Salita adunque al secondo piano, trovai Angiola Maria, che stavasi ancora col coltello in pugno, e perlustrava l’andito, declamando in monologo. Dio mio, quale orrido aspetto! La era una belva, una furia. I suoi occhi, schizzanti fuor dell’orbita, eseguivano le rapide evoluzioni d’una sfera d’oriuolo nel punto di essere scombussolato: i capelli inestricabilmente arruffati; la bocca contorta e schiumante; le narici sbuffanti la collera; il braccio alzato nell’atto di colpire chi primo si presentasse.
      Mi fermai alla porta del dormentorio, pronta a chiuderla, nel
     
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      caso che la pazza avesse inveito contro di me. Era sola, nessuna aveva voluto seguirmi.
      La chiamai: si volse, mi conobbe e corse colle braccia aperte, senza però sbarazzarsi dell’arma.
      Chiusi la porta, e ne voltai la chiave; essa ricominciò ad urlare di più bello, scongiurandomi di aprire.
      «Getta via il coltello» le dissi di fuori: «mi fa paura».
      Ubbidì. Quando l’udii cader molto lontano, aprii la porta. La pazza mi prese le mani, che strinse nelle sue, e poi le coprì di baci.
      Il suo stato mi mosse a pietà. Raccolsi il coltello, e la sgridai: mi promise che non l’avrebbe fatto mai più. Mi portai quindi nella sua cella, e fattomi da essa lei aprire i bauli, le tolsi e coltelli e forbici.
      La misera ubbidiva, senza far motto.
      Ciò fatto, le dissi che avrebbe pernottato nella mia stanza: al quale annunzio, abbandonatasi di subito alla più stemperata esultanza, si mise a batter le palme, a ridere sgangheratamente. In un momento portò il suo letto nella mia camera, ciò che a Gaetanella fece saltar la mosca al naso.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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