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      Questa donna soffriva di scorbuto, morbo frequente nell’atmosfera non abbastanza ventilata della clausura. Il sangue, che davano le sue gengive, era da lei creduto effetto d’emottisi, ed ogni volta attribuito alle tribolazioni che quella furba e dissimulata d’Angiola Maria non cessava di suscitarle.
      Giunse la sera; era il mese d’agosto: alle 8 suonava il silenzio. Mi posi a letto; Gaetanella ed Angiola Maria fecero lo stesso, promettendo quest’ultima di starsi cheta.
      Ciò non ostante, smaniava, storcevasi, rivoltolavasi da far pietà. Le domandai che cosa avesse.
      «Non posso stare nel letto» disse, «la testa mi brucia, le orecchie mi tintinnano».
      Balzò in piedi, schiuse la loggia, e trasse un sonorissimo sospiro nell’aspirare il fresco della notte; poi prese a passeggiare per la camera, pronunziando delle parole incoerenti.
      «Sposo mio, e in pari tempo mio confessore: che bella cosa! Dovrete, caro Don* disimpegnarvi da due uffizi... e quella gaglioffa cerca di trappolarvi, eh...? Ora dovete accompagnare il Sacramento in casa di un moribondo.., non è tempo ancora... il bacio prima! datemi il bacio prima di andarvene!».
      E ciò dicendo, apriva le braccia per istringere l’oggetto della sua visione; poi pianse un poco, un poco si smascellò di risa, un poco urlò.
      Dopo due ore di tal delirio si ricoricò e prese sonno. Gaetanella
     
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      si era pure addormentata. Io non reggea per la gagliarda febbre. Scesi pian piano dal letto, richiusi il balcone del terrazzo, e mi assopii.
      Una forte palpitazione al cuore, che spesso m’assaliva, mi risvegliò. Regnava nella stanza perfetto silenzio: non udivasi che la respirazione precipitata della mia conversa.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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