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      Assoggettata al camiciotto di forza, non sopravvisse qualche tempo, se non per sentire nel viaggio alla morte tutti i tormenti immaginabili.
      Intanto questo incidente aveva aumentato il mio aborrimento pel monastero. Ormai conosceva appieno l’egoismo delle monache: le quali per tacito accordo avevano tentato di farmi morire, mettendo esse due cose in salvo: prima, la loro tranquillità a detrimento della mia salute, e forse con pericolo della mia vita; poi, la spesa d’una donna, che badato avesse alla vittima del loro regime. La spilorceria del convento eclissa benanche quella d’Arpagone e di Sherlock. Per uscire da quella bolgia soffocante, avrei ben immaginato qualche mezzo idoneo, ma qual dolore non avrei recato alla zia!
     
      Un altro fatto consimile, e non meno tragico, avvenne dopo l’uscita d’Angiola Maria.
      Era, sotto la mia direzione, addetta alla confezione degli sciroppi e distillati per uso della farmacia, una conversa chiamata Concetta, compaesana della povera pazza, essendo entrambe dell’Afragola; bella donna di 36 anni, alta, robusta, d’un incarnato maraviglioso, cui dava risalto un grosso neo alla guancia sinistra: bocca gentile fornita di splendida dentatura: occhi cerulei, capelli castagni lucidissimi, leggermente increspati all’estremità, e sboccanti da sotto il soggolo nell’una e nell’altra ciocca. Il solo naso pregiudicava quel raro tipo di beltà, essendo soverchiamente aquilino.
      Nell’esercizio de’ suoi doveri Concetta mostravasi esattissima, e la sarebbe stata in tutto esemplare, se stata non fosse un po’ vanarella e civettuola nel parlatorio.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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