Era chiaro ch’ella aveva titubato intorno al genere di morte da scegliere, sospesa fra l’arsenico ed il capestro.
Di lì a poco venne il cardinale Riario Sforza, esaltato recentemente alla sede arcivescovile di Napoli. Egli apostrofò acremente la badessa, sì per aver menato tanto scalpore male a proposito, sì per aver permesso a’ poliziotti di violare colla loro presenza il sacro rifugio delle vergini.
«Sapete voi» le disse in tuono severo, «qual sia rispetto ai chiostri l’opinione dei sedicenti filosofi e liberali? Credono essi che nei vostri recinti regnino il rimpianto e la disperazione, ossia, che tutte le vostre monache siensi pentite del loro stato. Or voi, colla pubblicità data ad un fattarello di sì lieve momento, non avete forse dato appiglio alle calunnie del secolo? Se il monastero non è una tomba come i santi canoni la richieggono, perché ne porterebbe dunque il nome? I vivi non devono sapere giammai le intime peripezie del sepolcro».
L’infelice Concetta sopravvisse altri venti giorni, finché la gamba non le si cancrenò. Non mi dipartii dal suo fianco altro che al tòcco della campana ogni mattina e sera, né cessai di prodigarle i doverosi conforti di carità. Spesso l’udii mormorare da sé sola, tal altra volta la vidi conformare il sembiante a mesto sorriso, benché afflitta da doglie acerbe. Da alcuni tronchi accenti compresi che la poveretta trovavasi in un critico stato, che voleva con la morte nascondere. Supina sul letto di morte, con gli occhi inchiodati al soffitto, sovente diceva con se stessa:
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