Dopo pochi giorni di dimora mi avvidi con sdegno inesprimibile che i ladri erano esse loro, e che faceva d’uopo tener tutto chiuso a chiave, dal pane fino all’ago; ragione per cui, se l’abbadessa vegliava alla solidità della serratura claustrale, doveva separatamente ciascuna monaca vegliare a quella delle proprie serrature.
Vi fu un tempo in cui quest’ignominia aveva preso sì profonda radice, che non correva settimana in cui non si commettesse un furto.
Un’educanda dimenticò di levare la chiave dal comò; le involarono il suo peculio di cinque piastre napoletane. Nel servizio da caffè non si trovò un cucchiarino d’argento. Nel coro stesso fu rubata una corona con medaglia.
Una conversa si misurò una tonaca nuova, e se ne andò a pigliare il denaro per pagare il sarto: al ritorno non trovò più la tonaca sulla sedia ove l’avea posta. A me fu involata una piletta d’argento per l’acqua santa, attaccata presso all’origliere del letto. Dovetti perdere quel ricordo di famiglia a me prezioso, e non far cenno di nulla per non crearmi di soprassello delle nemiche. Altra volta mi rubarono una tovaglia di Fiandra a largo pizzo; ma, come io era già sulle tracce della ladra, me la fecero ritrovare nell’angolo d’un corridoio: aveva le iniziali scucite per metà. Ed è a notare, che questi furti succedevano in luoghi per dove gli artigiani non mai passavano, e per lo più di domenica, quand’essi non vi potevano entrare, esclusi dalla clausura.
La sera d’un giorno festivo, essendo indisposta, mi era ritirata prestissimo.
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Fiandra
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