Essa lo vuole, voi dovete uniformarvi: comandi chi può, ubbidisca chi deve».
«Non ho ubbidito mai» ripresi io, «né ubbidirò a comandi che ripugnano alla coscienza. Ora farò vedere alla tua padrona il mio modo di agire».
Ciò detto, mi portai difilato presso la badessa, cui riconsegnai la chiave della farmacia, né d’allora in poi mi lasciai più persuadere a ripigliarla.
Potrei aggiungere una quantità d’altri simili misfatti e abusi commessi durante il ventenne mio monacato in differenti cenobi e rimasti ognora impuniti, sì per amor proprio di casta, si per mancanza di polizia giudiziaria. Il priorato, la guardaroba, l’impresa dei commestibili, la ricevitoria, gli altri rami d’amministrazione quante e quante magagne non celano! Ma devo io tediare più a lungo il cortese lettore al racconto difatti tanto stomachevoli? A dare una vaga, ma giusta idea degli abusi d’ogni natura, che infestano conventi d’ambo i sessi, basta rammentare, che sotto il passato governo il furto e la camorra trasudavano, per così dire, copiosamente da tutti i pori della napoletana società: partivano dall’alto del trono, traversavano il santuario, e si scaricavano nelle arterie tutte della sottostante popolazione. A chi non è nota la risposta di re Ferdinando a quel ministro di stato, che ardiva denunziargli le malversazioni d’un eminente funzionario?
«E vero: egli è un mariuolo, un ladro, un giuntatore, ma però è un buon cristiano».
Questa biancheria di famiglia è troppo sudicia: voltiamo pagina!
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XVI chierici
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Ferdinando
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