Costui masticò male la dura rivelazione: s’impegnò a restituirmi il foglio necessario alle ricerche che mi era prefissa, ma fosse per altrui suggerimento, fosse per ispontanea riluttanza, non me lo diede. Fatto sta che quel poveretto erasi ben bene innamorato di me. La sua faccia era divenuta secca allampanata: il naso affilato, gli occhi infossati. La sua bocca, naturalmente grande, avea, per lo smagrimento, prese le proporzioni di quella della lucertola. Io lo rimproverai spietatamente.
«Sciocco» gli dissi, «non intendi che sei divenuto lo zimbello d’una brigata di monache, non meno pazze che insidiose, le quali, nell’atto di prendersi beffe della tua ingenuità, vorrebbero inoltre cogliere un più grande vantaggio, quello di dare argomento di molestia a me, ed ancora, se fosse possibile, di abbassare qui dentro la mia riputazione a livello della loro? Rientra in te stesso, raffrena gli stolti desiderii, e bada d’ora innanzi a comportarti più saggiamente nel disimpegno de’ tuoi doveri, se non vuoi perdere il pane e l’onore».
Rispose, riconoscere ormai l’eccesso della propria follìa: non esser però egli stesso l’autore di quella malaugurata passione, ma sì le tali e tali monache che a poco a poco glie l’avevano insinuata nel cuore: alla fin fine, l’amor suo aveva toccato tale grado di intensità da non rimanergli più veruna speranza di poterlo signoreggiare.
«In tal caso» ripresi io, «non ti resta che un solo scampo: duro sì, ma inevitabile».
«Parlate! Legge suprema sarà per me il vostro consiglio». «Le celie di quelle donne sono zampate di tigre; oggi ridono della tua semplicità, domani ti scaveranno la fossa.
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