Ma anche nell’interno del chiostro lo stato mio erasi modificato. Una malattia di pochi giorni mi aveva strappata la seconda zia, quella che funzionato avea per lungo tempo come badessa. Gaetanella non era più al mio servizio. Dopo il fatto d’Angiola Maria, fatto nel quale aveva ella dimostrato nutrire affetto scarsissimo per me, e niuna umanità per gli altri, io l’aveva ceduta a mia zia, ed in cambio m’era provveduta d’una giovinetta, entrata poc’anzi nel con-
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vento, e nativa d’un piccolo paese nelle vicinanze di Napoli. Chiamavasi essa Maria Giuseppa: aveva diciassett’anni, ed era di fisonomia insinuante. Benché la sua famiglia avesse fatto molta spesa per chiuderla, e che essa non provasse ancora la nostalgia della personale libertà, pure aveva fin dal principio concepita siffatta devozione per me, che protestava tutto giorno d’esser pronta a seguirmi dovunque le combinazioni mi avessero potuto condurre.
Ne’ contorni della mia prigione trovavasi una casa alla cui finestra spesso vedeva io una giovine monaca in amichevole conversazione colle parenti. La mirai, la rimirai, ne interrogai l’abito: non v’era dubbio, apparteneva ad un qualche convento di clausura, la non pareva addetta a quella classe di bigotte che chiamansi monache di casa. Per quale mezzo aveva ancor essa ricuperato l’impareggiabile benefizio di ricalcare la soglia paterna?
La brama di trapelare alcun che intorno a quel portento mi preoccupò vivamente. Seppi alfine, dopo lunghe indagini, ch’era essa di clausura d’un monastero di Nola, e stava da lungo tempo fuori del chiostro, avendo addotto de’ motivi, e rinnovato il permesso d’assenza ogni sei mesi, per modo da ottenerne un prolungamento indefinito.
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