La menava allora in luogo appartato, il più sovente nel noviziato, ove di soppiatto le allentava la stringa; la sera però io doveva tornare a stringerla per non farne accorto il cerbero. Io diceva sovente alla pupilla:
«E fino a quando, cara mia, sarai tu la schiava d’una servaccia? Se vuoi vederla finita, io ne conosco il modo: lascia fare a me!»
«No, no, per carità, non lo fate» rispondeva quella, giungendo le mani supplichevolmente, e tremando alla sola idea della collera di quel mostro.
Questa creatura interessante, tanto piena di candore, di religione, d’amorevolezza, quanto maltrattata dalla natura e tartassata dal destino, nutriva un affetto singolare per gli animali, e specialmente per le rondini. Seduta nel vano della finestra, col capo appoggiato alle braccia incrociate, passava parte della mattinata a seguitare le aeree scorrerie di quei volatili, ed a contemplare la gioia delle loro piccole famiglie annidate sotto il tetto, o ad ascoltare i loro garruli preludii nel punto di dare l’imbeccata ai neonati. I costumi e gl’istinti delle rondinelle la rapivano in estasi, né mai si saziava di udirne il racconto. Ogni qualvolta io le narrava qualche novello aneddoto intorno alle loro maravigliose trasmigrazioni, essa, interrompendo il discorso, soleva dimmi con mestizia:
«Esse almeno se ne vanno d’autunno per ritornare la primavera nello stesso nido... E noi?».
A dispetto però di tali requisiti, le giovani monache non la trattavano meno duramente della conversa. Allorquando l’udivano recitar l’ufficio nel coro (cosa ch’io le voleva sempre inibire, ma per la quale essa era appassionatissima), facevansi beffe del suo affannoso respiro, oppure, dileggiando il suo zelo, sclamavano ad alta voce: «Che seccatura!
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