«Gli omicidi» disse, «non si commettono soltanto col pugnale o col veleno. Mettere un tal busto a questa malata, è lo stesso che volerla uccidere: comprimendo il suo cuore, voi la mandate alla tomba».
Parole gettate al vento. Chiarina continuò a portare le stecche di ferro; non valsero né le ammonizioni del chirurgo né le mie preghiere.
Suo fratello trovavasi negli Abruzzi. Gli scrissi una lettera in cui a chiare note gli dissi come il ritenere più lungamente la sorella nel monastero equivaleva a volerla abbandonare a morte sicura.
Venne egli subito in Napoli, e disse a Chiarina che si apparecchiasse a seguirlo. Essa mostrossi dolente di lasciarmivi, sebbene convinta d’altronde ch’io stessa non vi sarei rimasta più a lungo, perché la mia domanda non poteva incontrare in Roma alcun ostacolo.
Uscì adunque del chiostro, condotta dal fratello, e le giovani monache in segno di ringraziamento, accesero delle candele alla Vergine.
Senonché, il rio destino non avea cessato di perseguitare quella
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miserella. Era d’inverno. Il freddo degli Abruzzi, dove il fratello dovette ritornarsene, recò grave pregiudizio alla salute di Chiarina, e come d’altra parte il tempo fa dimenticare le passate sofferenze, credette questa di trovarsi più riparata nel chiostro, che non viaggiando col fratello.
Di lì a qualche tempo facea ritorno in Napoli, e domandava di essere ripristinata nel suo posto di educanda. Quale idea!
Le feci osservare l’incauto proponimento, non degno della sua provata prudenza: le rammentai i passati patimenti, le diedi il consiglio di scegliersi piuttosto un ritiro, prendersi una cameriera: e viver tranquilla e indipendente.
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