Racchiusa nel mio silenzio aveva osservato che gli mancava il meglio: l’istruzione. Era evidente che il tempo speso dallo scopone in Roma, era stato impiegato in tutt’altro che nello studio. Egli aveva imparato in Roma solamente la pasquinata; ma se voleva imitare i Romani nel sarcasmo, non ne aveva però l’arguzia e la prontezza che danno al frizzo il vantaggio dell’opportunità: per un mauvais plaisant tra Marforio e Pulcinella ci corre poco.
Se, affettando una mal preparata gravità, prendeva qualche volta a rivolgere sia un’allocuzione od un avvertimento, duravasi fatica a raccapezzare quello che avesse voluto conchiudere col suo diffuso sproloquio: idee disadattamente accozzate: termini e locuzioni impiegati male a proposito: costruzione oscura e disordinata. Benché inesperto nel parlare e più ancora nello scrivere la propria lingua, pure era pizzicato dalla vanità di farsi credere latinista, per cui nel suo ragionamento spesso mescolava de’ proverbi latini o dei versetti della Bibbia... Ma io temo davvero che del suo limen grammaticum, appreso nell’Eterna Città, abbia egli ritenuto in mente ben poco: il modo, cioè, di coniugare il presente e futuro d’un solo verbo: del verbo amare. Tale pur è l’opinione di due buoni terzi della romana società.
Riario era allora in concetto di bell’uomo: intorno ai gusti non c’è da disputare. Egli è peraltro indubitato che ciascuna delle sue visite elettrizzava le giovani benedettine. Appena uscito del parlatorio, si radunavano esse in diversi crocchi, dove ciascheduna ingegnavasi di sorpassare le altre nel panegirico delle doti materiali e spirituali di Sua Eminenza.
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