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      A siffatta rimembranza, destata da lui stesso, il sangue mi rifluì nella faccia e gli volsi un’occhiata di sdegno.
      «Vostra Eminenza» dissi, sforzandomi a contenere l’alterazione nervosa che m’agitava, «Vostra Eminenza dovrebbe sdegnare di scendere a sì bassi ed ignominiosi intrighi... »
      «Non vi sgomentate» riprese egli interrompendomi; «a quell’inezia non annetto alcuna importanza, essendo convinto che nulla di positivo sia passato fra voi e lui. Scenderebbe mai a livello d’un semplice chierico una nobile... voglio dire una monaca, qual voi siete?
      [173]Nondimeno l’idea di lasciare il chiostro è assurda: bisogna deporla».
      Fredda e impavida, gli dissi non credere che Iddio e il Santo Padre, e Sua Eminenza avessero di comune accordo decretata la mia morte col prolungamento della chiusura. Ma egli, troncatami la parola, passò a intrattenermi per qualche tempo in estranei e futili ragionamenti; quindi, alzatosi di repente:
      «Tornerò spesso a visitarti» mi disse, dandomi quella volta del tu; «fatti dunque vedere di buon grado, né ti nascondere, come hai fatto finora, e dammi inoltre il contento di sentire, che hai discacciata dal cuore la tentazione di restituirti all’inferno del secolo, capissij’à!».
      Ritornai nella mia cella, ove m’abbandonai alla disperazione, che pur veniva esasperata dal sogghigno delle monache. Io le sfuggiva tutte. Adempiti che aveva i doveri del coro, e gli altri d’infermiera, per la più breve via mi riduceva nella mia stanza, dove o leggeva, o meditava, o piangendo lavorava: e là, più per bisogno di distrazione, che per vaghezza di pubblicità, incominciai a scrivacchiare queste Memorie.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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