Egli ebbe la stessa negativa.
Dovette più tardi visitare il convento per affari della comunità. Disbrigata la faccenda che ve l’avea menato, si fece condurre dalle monache nella mia cella, che prese ad esplorare a parte a parte; quindi, uscito sul terrazzo, e scorto lì di faccia il Vesuvio colle adiacenti colline e coll’ameno paesaggio che intorno intorno lo corteggia, disse:
«Di quale magnifico prospetto gode la vostra stanza! che immenso orizzonte! questa vista solleva il cuore e edifica lo spirito!... E voi volete lasciarla!»
«Questo prospetto» risposi, «non fa che rendere più sospirato al prigioniero il bene della libertà».
«Ma voi siete libera quanto basta: chi sa, che una dose maggiore di libertà non vi tornasse dannosa!»
«Con simili detti era pure confortato dal suo tiranno l’afflitto popolo d’Agrigento» risposi a Sua Eccellenza, accompagnando l’ironia con un sorriso.
M’intese, si tacque, e partì. Era quello il tempo de’ monsignori Apuzzo, de’ Pietrocola, de’ Del Carretto; il tempo, in cui a furia di sofismi erasi elevata a dignità d’assioma la dottrina, che il popolo delle Due Sicilie, troppo felice nello stato d’innocenza pecorina in cui viveva, non dovesse punto correre il rischio di restarne defraudato col cercar di spingere le sue letterarie cognizioni più in là dell’abbiccì. In qual parte del mondo cristiano non risuona l’ignominia del Catechismo di monsignor Apuzzo? Potevano l’oscurantismo clericale e il dispotismo borbonico lasciarsi addietro un monumento più infame di questo?
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