Circa un mese e mezzo dacché aveva spedita la lettera al Santo Padre, mi venne incontro il confessore tutto contristato, e di pessimo umore. Veniva dal palazzo arcivescovile.
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Chi lo crederebbe? quella lettera, di cui io sperava aver fatto un mistero allo stesso canonico, era stata rimessa tal quale originalmente al cardinale arcivescovo!
E il segreto epistolare? Violato!
E il sigillo della confessione? Infranto!
Sua Eminenza voleva sapere dal canonico il come, il quando, il perché avesse costui permesso che tale scritto fosse stato diretto a Sua Beatitudine, e chiedeva inoltre se qualche procellosa passione mi avesse suggerito tale spediente.
Il canonico asserì di non saperne nulla: almeno così mi disse. Son tutti d’una buccia. E certo però, che nella confessione io m’era fatta una legge di non rivelargli, se non le mere infrazioni alla disciplina.
Il cardinale, saltato in collera per questo tratto novello di ciò ch’egli piacevasi di qualificare col nome di mia irrefrenabile cospirazione, lasciò trascorrere lungo tempo, senza venire a trovarmi. Intanto quella lettera, caduta in sua mano, troncava l’ultima mia speranza di vedere prossimamente terminato il mio purgatorio.
Se non che, in luogo di quelle illusioni, che di mano in mano svanivano in sul nascere, andava per me spuntando un diverso, e più chiaro lume di salvezza. Ridesto nel sepolcro, ove chiuso da già ventisett’anni giacevasi, il genio dell’italica libertà scuoteva dal crine la polvere della tomba, e riprendeva più bella e più forte l’antica sua vita.
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Santo Padre Eminenza Sua Beatitudine
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