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delle rivoluzioni, allo strepito delle barricate, al crollo de’ troni, che tanto contrastava col sepolcrale silenzio del mio carcere, io provava una soddisfazione, uno strano contento che mi rapiva. E: «qual piacere» andava dicendo fra me, «se l’eco imbelle e misantropa di questi luoghi fosse or ora atterrita dallo squillo d’una tromba militare, che s’inoltrasse fino alla sala del Capitolo!».
Intanto, alimentato quotidianamente da’ diari, il mio entusiasmo cresceva a mano a mano che mi era dato vedere i preti frementi di fanatismo e di rabbia. La faccia di questi negromanti mi serviva di telegrafo. Spandevasi un giallume itterico sulle loro contratte fattezze? Le cose andavano egregiamente. Tornavano essi a sollevar lo sguardo umiliato, a sogghignare, ad esplodere imprecazioni contro la Costituzione, che chiamavano Prostituzione? Il vento spirava contrario. A poco a poco fu ordinata nel convento una congiura, volta a mortificare il mio liberalismo, a trafiggere le mie convinzioni. Era il tempo in cui le insegne napoletane, per amore o per forza benedette dalle locali autorità, partivano alla volta della Lombardia, affine di cooperare, dicevasi, nell’espulsione finale dell’Austriaco. Qual nugolo di sarcasmi, di velenosi motteggi, di pungenti frizzi, d’ironie non m’assalì allora nel refettorio per tutto il tempo della mensa! Spesso lasciai il desinare alla zuppa, e, rientrata furente nella mia cella, fui invasa dall’orrenda tentazione d’appiccare il fuoco al monastero, a costo di mandare in cenere quelle vespe e quei calabroni, e insieme con loro me stessa.
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