Me ne rimasi dunque, come i toscani dicono, nelle secche di Barberìa.
[202]
Di lavori donneschi io ne sapeva un po’, e l’Onnipotente, che tempera i venti per l’agnello tosato, non m’aveva privata d’operosità e d’industria. Per non viver d’accatto nel conservatorio, per non essere a carico altrui, avrei dunque preferito di guadagnarmi la vita colle proprie mani. Ma come si fa ad industriarsi dimorando in casa di nemici, e brancolando nel buio che cuopre l’avvenire?
Ad un mio parente che rinfacciava al cardinale quell’accanimento codardo contro una donna, duro come un macigno, costui rispondeva:
«La madre è ricca: ci penserà lei».
Distesa in quel letto di Procuste; stretta, per meglio dire, fra l’uscio e il muro; destituita al fìne dei mezzi di sussistenza, feci ricorso all’energia dell’animo per cercare scampo in una disperata uscita. A mali estremi, rimedi estremi.
Una sera, invece di ritirarmi secondo il solito al conservatorio, avvertii per lettera la badessa di voler chiudere la porteria tra vespro e nona, perché, non volendo mangiare il pane altrui, sarei rimasta in casa mia.
[203]
XXL’Annunziata di Capua
Alla lettura di quel mio foglio, che le suore di Costantinopoli gli trasmisero tal quale, il cardinale restò pietrificato, né poté capacitarsi che vera e reale fosse la mia fuga.
Il primo accesso della sua collera scatenossi sul mio confessore, che fu acerbamente rimproverato di non aver saputo antivenire un sì grave fatto.
Impaurito dagl’istinti vendicativi del cardinale, il canonico scrisse con mano tremante un viglietto, nel quale mi supplicava di tornar subito al conservatorio.
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