Il capo mi girava, la mano rifiutavasi a scrivere. Cionondimeno con poche righe l’avvertii, che, per timore ch’io non reclamassi al papa o ad altra autorità superiore, le mie lettere venivano aperte e lette: badasse dunque a ciò che scriverebbe.
Il giorno appresso ricomparve all’uscio l’antipatica figura del superiore ecclesiastico. A quella vista mi sentii ribollire il sangue, ed incapace di frenare il traboccante sdegno, proruppi in imprecazioni contro il cardinale e contro il re: strana accoglienza ad un direttore della censura pubblica! Don Pietro Calandrelli credette di poter imporre silenzio a me, come lo faceva ogni giorno agli autori di grammatiche e di dizionari: ben lo sa egli se lo feci chetare, io!
«Ritengo» gli dissi, «per insulto la visita di preti censori ed inquisitori. Liberatemi dunque della vostra presenza, se non volete ch’io ricambi insulto per insulto».
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«L’ingiusta collera» rispos’egli, «non vi permette di vedere che oltraggiate i vostri benefattori; quando sarete calmata da questo stato d’irritazione, verrà a trovarvi anche Sua Eminenza».
Indietreggiai d’un passo, e puntando l’indice, «Ditegli che non ardisca, perché diverrei una tigre!» esclamai.
Il prete si volse alla priora:
«La è pazza davvero» disse: «andiamo via!».
Quest’epifonema del prete diede il tracollo al disordine delle mie idee. «Sono dunque realmente pazza!» andai dicendo fra me.
Erano scorsi intanto quattro giorni, dacché perseverava a rifiutare ogni alimento. Una lunga malattia di languore non mi avrebbe più profondamente incavate le gote; il volto era divenuto del colore del bronzo; il bianco degli occhi, di quello dello zafferano.
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Pietro Calandrelli Sua Eminenza Don
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