Se mi concava, in cerca d’una tregua all’orrenda fissazione che mi perseguitava, eccomi di bel nuovo innanzi l’immagine di Domenico prete, nell’atto di spedirmi al patibolo. Insomma, priva d’un solo barlume di speranza, inferma di corpo e di spirito, io invocava ad ogni istante o una morte immediata, o la restituzione della libertà.
Al sesto giorno le forze per alzarmi diletto mi mancavano, né per questo condiscesi a pigliare i rimedi che la priora mi suggeriva. L’indomani fu mandato per il medico; era il dottor Sabini, cuore aperto, e, come seppi dipoi, caldo di generoso amor di patria. Udito dalla priora il racconto de’ miei mali, e come io m’ostinava a ricusare qualunque nutrimento: «Tanto meglio» osservò: «più giovevole, che dannoso riuscirà il digiuno alla sua salute; appena sarà cessata la febbre, la forzeremo a cibarsi».
Chiese il calamaio per una ricetta; lo trattenni colla mano per impedirglielo.
«Perdereste il tempo» gli dissi; «sono fermamente risoluta di non prendere alcun rimedio. Voi siate pure il ben venuto, se vi conduce l’umanità; ma se venite a prestarmi i soccorsi della vostra professione, io vi congedo al momento!».
Non aveva finito di parlare, quando riapparve all’uscio la testa del prete superiore.
«Signor Sabini» disse, senza oltrepassare la soglia, «il cardinale vuoi sapere da voi lo stato dell’inferma».
A quella voce agitandomi convulsa nel letto, gridai quanto n’aveva in gola:
«Via di qua, papasso mascherato!»
«Calmatevi, per carità!» mi disse il Sabini. «Signor cavaliere»
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