Il cicaleccio di quel rimbambito distruggeva i benefici effetti dell’ultima crisi della mia ragione. Protestai contro quella quotidiana molestia; mi fu risposto che io non poteva stare senza il catechismo giornaliero del confessore: mi avrebbero però mandato un tal Cutillo, che in Napoli godeva la stessa riputazione di Quaranta.
«Poiché tanto lo decantate, tenetevelo per voi» risposi al prete superiore; «se mi debbo confessare, voglio una persona di mia, e non di vostra scelta».
La priora m’aveva tenuto parola d’un vecchio canonico del vicinato, il quale spesso veniva a dir messa nella chiesa del ritiro, ed informavasi ogni volta sì della mia salute, che del mio stato morale, e pietosamente a mio favore le raccomandava i riguardi che il dovere di priora e le mie peripezie richiedevano.
Io lo conosceva di fama, per uomo dotto, prudente e d’illibata probità. Pregai dunque la priora di chiamarlo per confessore da parte mia; mandò in risposta che accettava l’incombenza, purché non intendessi di valermi della sua mediazione presso il capo della Chiesa napoletana.
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Gli feci sapere ch’io era ben lungi dal pensiero di umiliarmi a costui. Egli venne.
Ma la scelta di quell’egregia persona fu disapprovata da Sua Eminenza, non meno che dal superiore ecclesiastico dello stabilimento. E la ragione fu questa: il canonico era cristiano di cuore e di coscienza, non per ispirito di partito o per orgoglio; era ministro al servizio della sofferente umanità, e non istrumento di casta feroce. Eglino, al contrario, stavano molto al disotto di lui, e per condotta morale e per ingegno e per dottrina.
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