«Non temete» soggiunsi io: «qualche anno ancora, e queste giovinette avranno scoperto e detesteranno le vostre imposture al par di me».
Ben lontano però eravamo ancora da tale mèta. Il ritiro componevasi quasi per intero di giovani, siffattamente allevate nel bigottismo e digiune di buona istruzione, che mal appena sapevano scrivere. E come poteva essere altrimenti, poiché Calandrelli era il collega del famigerato monsignore Francesco Saverio Apuzzo? Quelle adolescenti ogni volta che passavano davanti alla mia porta, sospirando, esclamavano:
«Maronna delle Grazie, salva l’anima sua! Dio mio, convertila! ».
Il superiore andava intanto ghiribizzando per iscoprire con qual mezzo avessi potuto trasmettere al nunzio la mia lettera. Furono interrogate una per una tutte le converse, ma nulla si poté sapere. Avuto alfine qualche sospetto sul fagotto della biancheria, l’inquisitore, mettendo in non cale ogni riguardo di degenza, ordinò alla priora di volerlo avvertire la prima volta che i miei panni dovevano esser mandati a casa. E così fu: posto il ginocchio a terra, ebbe quel cavaliere dell’ordine di Francesco I la birresca impudenza di sciogliere il fagotto di propria mano, e sventolare partitamente tutti, senza eccezione, i miei panni.
Ma io che m’aspettavo la perquisizione, gli aveva teso un bel laccio.
Nella piega d’un asciugamano il reverendo trovò una lettera diretta a mia madre. Rizzatosi gongolante in piedi, e con mano tremante dall’impazienza, schiuse il corpo del delitto.
«Finalmente» disse alla priora, «il topo è nella trappola!
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