Pretendeva egli fra le altre che non solo mettessi in oblio le offese de’ miei nemici, ma che inoltre li amassi con sincerità e ridivenissi di loro; ora, non essendo più in mio potere di trapassare l’abisso che mi separava al monachismo, egli rifiutavasi di accordarmi sì l’assoluzione, che la comunione.
Mi venne circa quel tempo l’idea di riscrivere a Roma, e quest’amico che faceva di tutto per calmarmi, s’impegnò di far egli recapitare con sicurezza la mia istanza. Ottenuta questa promessa, scrissi una nuova petizione, per cui chiesi direttamente al papa l’uno dei due: o la secolarizzazione, od il permesso di recarmi personalmente in Roma per far sentire le mie ragioni al Pontefice.
Non ebbi la risposta che dopo molti mesi d’aspettazione. E qual risposta! Il Santo Padre non m’accordava né il permesso di trasferirmi in Roma, né l’indulto di secolarizzazione: tuttavia condiscendeva a permettere che fossi per l’avvenire dispensata dalla clausura.
Quest’ultima concessione almeno mi dava speranza di uscire in
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quel modo che io usava nel conservatorio di Costantinopoli. Mandai dunque a domandare all’arcivescovado da qual giorno mi sarebbe lecito di uscir nella mattina dal ritiro.
«Non posso» rispose il cardinale. «Ritiro per le altre, clausura per lei».
A tale risposta non seppi più frenarmi; due anni e mezzo erano trascorsi dal tempo del mio ingresso in quella catapecchia.
Ordii nel pensiero un disegno di fuga, e presi di mira l’Inghilterra o l’America. O nell’una o nell’altra di queste libere terre avrei trovato fratelli e compagni di esilio; ma propendevano i miei voti per quella che racchiude le spoglie di Foscolo.
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