Restate, figlia mia, e date ascolto al consiglio d’un vecchio, che prende sommo interesse per voi!».
Questi accenti mi commossero, come quelli d’un sacerdote
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rispettabile per saviezza e probità rara.
«Ma, padre» risposi «riflettete voi, che parlate ad una moribonda, cui non manca altro che l’estrema unzione? Che dico a una moribonda? A un cadavere!»
«Qualunque altro scampo tenteremo; questo, no».
«E quale dunque?»
«Perché piuttosto non mandare a Roma un qualche vostro parente, che faccia pratiche per voi?».
Scoraggiata nel primo disegno, quest’altro non mi parve da rigettarsi, tanto più che mi rimaneva pur sempre l’estremo compenso della fuga. Ma a qual parente avrei confidata la incombenza di Roma? E le spese? Provvederebbe Iddio.
A forza di fantasticare mi ricordai d’una zia materna, educata in Bologna, che, dotata di singolare operosità, meglio di chicchessia avrebbe potuto assumersi tale incarico.
La zia accettò volentieri; mia madre e le sorelle sborsarono il denaro necessario, ed io, oltre il plico di tutti i rescritti sino allora ottenuti invano, le diedi un certificato dei due medici della comunità di Mondragone, certificato, che, non dispiaccia al lettore, trascrivo qui per intero, affinché gli sien note le mie condizioni fisiche e morali di quel tempo.
«In giugno del 1851, dal Reale Ritiro di Mondragone ricevemmo noi sottoscritti l’invito di visitare la nobile claustrale, signora D. Enrichetta Caracciolo di Forino, comecché afflitta da patimenti nervosi. Osservatala dunque attentamente e con ogni possibile diligenza, raccogliemmo tutte le necessarie informazioni sul come e quando principiarono e si successero i sintomi convulsivi.
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