Su questo fatto io scrissi a mia zia una lettera pregna di lagrime, ch’essa, destra e solerte, fece leggere a parecchi cardinali. Lo stile patetico del foglio scosse la sensibilità di quei dignitari, i quali vicendevol-
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mente si dissero che le durezze di Riario non erano che l’effetto d’una persecuzione personale.
Poco appresso veniva rimessa da Roma all’arcivescovo la fede surriferita dei medici colla solita domanda del suo parere. La risposta fu al solito negativa; ma come la vela della mia barchetta cominciava a pigliar vento, da persone di quella corte a me propizie gli venne ingiunto, che scegliesse egli medesimo un medico di sua fiducia per fare un’altra fede. Il suo rapporto veniva per tal modo notabilmente scompaginato.
Eppure questo prelato stava allora acquistando una singolare popolarità. In tempo del colera, da cui fu nuovamente flagellata allora la capitale, egli seppe affettare siffatta tenerezza pei malati, che la nostra plebe, più d’ogni altra gente della penisola propensa al maraviglioso, spinse l’ammirazione fino ad attribuirgli il dono dei miracoli. Quell’anima caritatevole, quel vaso di elezione bastava che imponesse la destra sul capo del coleroso, per discacciar tosto il morbo e dal corpo infetto, e ancora da quella casa.
Il Riario allora s’avvide che per aver io trovato alfine qualche buon appoggio in Roma, la mia fortuna cominciava a sorgere; e non sembrandogli ormai prudente di opporre altri seni inciampi, tergiversò, traccheggiò; ma finalmente messo alle strette, decise che il certificato dovesse essere steso o dal professore Ramaglia o dal Giardini.
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