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      Da quelle alture, che dominano la sottostante città, l’intera baia di Napoli, e i più pittoreschi dintorni di questa terra benedetta, io lanciava lo sguardo or su questo punto, or su quello, ne misurava le armoniche proporzioni, e ne percorreva le distanze, ebbra di giubilo, rinascente alle forze native, anzi ispirata da una poesia d’affetti e di speranze, che non sapeva d’aver posseduta in addietro. Né in quelle escursioni m’arrestavano le intemperie della stagione: non la pioggia, che lungo i fianchi della montagna scatenava furiosi torrenti, non la nebbia d’autunno, quando sboccando dalla foresta, e scavalcando i burroni, veniva ad avvilupparmi in densi vortici. Coll’occhio fiso sul punto più lontano dell’orizzonte, aspettava lo sfumare della caligine, per ritrovare poi alla luce del sole più bella e splendida una prospettiva, non più circoscritta da enormi muraglie e da spranghe di ferro.
      Un giorno, percorrendo la montagna, m’imbattei in un contadinello, che in una rozza gabbia, portava una ventina d’uccelli presi di fresco.
     
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      «Quanto volete di tutti questi prigionieri?» gli domandai.
      «Tre piastre» rispose il bricconcello.
      Me li cedé per una, compresa la gabbia. Pigliati i poveri carcerati uno per uno, li restituii alla natìa libertà, lieta di vederli prendere il volo, e sparire in un batter d’occhio fra gli alberi. Adescato il ragazzo dal guadagno, venne spesso a cercarmi con nuove gabbie e nuovi schiavi. Non trovandomi in grado di largheggiare, fissai di comprarli a due grana l’uno, e per tal modo mi procurai spesso il diletto di fare ad altre creature viventi il bene che Dio avea fatto a me.


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Misteri del chiostro napoletano
di Enrichetta Caracciolo
pagine 337

   





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