Nel mirarli scappar di mano io diceva a me stessa:
«Se l’Italia mia risorgesse a vita e libertà, non farebbe anch’essa lo stesso a favor degli altri popoli, ancor languenti nel servaggio!>.
Cominciavano frattanto a crescermi i capelli, caduti la prima volta sotto le forbici di San Gregorio, e pel corso di tredici anni tosati come quelli delle pecore. A mano a mano che le treccie allungavano, mi parea di guadagnar terreno nello stadio della personale indipendenza, e mi pareva mill’anni che, non più tocchi dal ferro servile, si ripristinassero all’onore primiero.
Mi rimaneva un’altra insegna della servitù: l’abito monastico. L’aveva già smesso in casa, ma bisognava trovare modo di disfarsene anche fuori e per sempre. Quell’abito, non solo mi umiliava a me stessa, ma m’annoiava, m’inceppava ad ogni passo. Tutti si voltavano a guardarmi: chi per curiosità, chi per offeso fanatismo, chi per vaghezza di cose originali, ed io desiderava passare inosservata per la via. Quegli occhi che mi si puntavano addosso, non importa se con benigna o maligna intenzione, non erano forse un tributo oneroso? Non iscemavano notabilmente il capitale della mia libertà? Risoluta di finirla con quell’anomalia, un bel mattino mi recai dal Vescovo.
«Monsignore» gli dissi, «quest’abito mi dà tanta noia che per spogliarmene mi toccherà ad espatriare, se voi non mi date licenza di lasciarlo».
«Vi consiglio a conservarlo addosso» rispose il Vescovo. Poi sorridendo: «Ma se poi ve ne voleste spogliare assolutamente» soggiunse, «che bisogno v’è di chiedermene licenza?
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