Da quel giorno incominciarono le spie a mettersi in moto, non altrimenti d’uno sciame; e si sa che lo spionaggio era praticato in gran parte da sacerdoti e da monaci. Preti dal ceffo birresco avvertiti del mio mutato domicilio ronzarono continuamente intorno al vicinato della mia dimora, e presero a seguitarmi da per tutto, muti, costanti, inseparabili non meno della mia ombra. Addestratami poco a poco a riconoscerli, ancorché travestiti, non li curai; stetti però molto attenta a non dar loro qualche appiglio di denunzia, appiglio che andavano evidentemente cercando nelle mie relazioni con persone sospette di liberalismo; poiché, quanto a me, non temeva d’essere perseguitata. Dall’una parte il permesso ottenuto da Roma, di uscirmene da un luogo ov’era stata violentemente sequestrata; dall’altra il cangiamento di giurisdizione, erano due argo-
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menti, atti a raffrenare le tiranniche recrudescenze di Riario. Nulladimeno, consigliata a metter pur io delle spie intorno alle spie laiche e clericali che m’assediavano, lo feci, e ne ottenni felici risultamenti. Con questo mezzo pervenni non solamente a porre me stessa in istato di difesa, ma pur anco a poter trattare liberamente gli amici, e perfino a frequentare qualche casa segnata con croce nera dal commissario. Per dare un esempio del metodo da me tenuto nel deludere la vigilanza delle spie, basti dire, che in quell’intervallo di sei anni cambiai diciotto volte di abitazione, e trentadue volte di donna di servizio.
Quello spionaggio borbonico di mostruose proporzioni vestiva mille forme diverse, prendeva mille diversi atteggiamenti, infestava l’aria stessa del santuario.
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Roma Riario
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