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denza e di unità, inaugurava il regno della coscienza nazionale, inalberato su tutte quasi le vette della penisola.
Conosco uno scritto che esprime con mirabile fedeltà, e riassume con mirabile concisione i sentimenti del popolo di Napoli e di Sicilia nel momento in cui il rampollo de’ Ferdinandi imbarcavasi alla volta di Gaeta. E l’addio che un antico emigrato manda al Borbone in forma epistolare a nome degli Italiani del Sud. Credo far cosa grata al lettore, riportando per intero questa lettera; il merito ne compenserà la lunghezza.
Eccola:
«Sire,
«Mentre i vostri nemici vi accompagnano con una maledizione e i vostri amici con una parola di disprezzo, sia permesso ad un patriotta di accomiatarvi con un addio che non foste mai uso ad udire: la verità che i posteri diranno, e che i cortigiani nascondono.
«La battaglia di Velletri dette il trono alla vostra famiglia; la presa di Reggio glielo tolse. Fra questi due avvenimenti sono corsi 126 anni. Facciamo il bilancio della eredità che lasciate.
«La storia di niun popolo offre lo spettacolo di quello di Napoli. Cento ventisei anni di esistenza sono stati cento ventisei anni d’insurrezione quasi permanente; cento ventisei anni di regno, un’espropriazione morale della virilità e della intelligenza di questo popolo. Cura prima del vostro primo antenato fu barricare queste provincie d’Italia nell’autonomia di uno stato: d’Italiani sotto il dominio spagnuolo, e’ ci fe’ Napoletani. Noi formavamo una famiglia con Milano, con Parma, con Sicilia, retti da mala signoria, e contro la mala signoria frementi: Carlo III ci scisse.
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