«Addio, Sire: voglia il Cielo che questo commiato senza amarezza, che a nome di tutto il regno prendiamo da voi, non ci sia ricambiato con l’addio di Medea! ».
Festevole e sfavillante, quanto sulla cima del Thaboi ritornò al cielo di Napoli quel sole medesimo che tramontando aveva ritratto i suoi raggi dai funerali della monarchia borbonica. Il 7 settembre è una di quelle date memorande, citando le quali non sarà necessario aggiungere il millesimo. Dormì pochissima gente quella notte. Spontanei e popolari gli apparecchi pel solenne ingresso del liberatore. Già i primi albori avevano trovato in piedi tutta Napoli. Le principali vie della città stipate da più centinaia di mila persone, armate la maggior parte per apprensione di qualche movimento reazionario; le finestre, i terrazzi, perfino i tetti, gremiti di spettatori. In Toledo, non si passava; non pur una casa che non fosse prodigamente imbandierata, o fregiata d’emblemi nazionali, o parata d’arazzi. E da quella frenetica agitazione, da quel delirio, un continuo risuonare di canti marziali e patriottici, un concerto di voci, diventate rauche pel soverchio acclamare Italia, Napoli e Garibaldi.
Mi sedusse l’ambizioncella d’essere la prima fra le mie concittadine a stringere la destra al Generale. Questa vaghezza pose in pericolo la mia vita.
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Saputo l’itinerario, volli appostarmi al portone della Foresteria, dove l’Eroe doveva scendere; grazie ad alcuni miei conoscenti riuscii per un momento a collocarmici. Ma poi la calca, cresciuta a dismisura, mi serrò sì forte, che per poco non morii d’asfissìa.
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