La mia vanità fu soddisfatta più tardi nella piazza della cattedrale, in mezzo alle assordanti acclamazioni del popolo, all’ombra di cento bandiere tricolori che sul capo mi ventilavano, e sotto i nembi di fiori che diluviavano da tutte le finestre. La foga delle commozioni aveva scolorito il naturale incarnato, e scomposte le fattezze del trionfatore. Il pallore della sua fronte spirava non so quale mestizia, che faceva contrasto alle deliranti ebbrezze degli ammiratori. Solo il suo sguardo dominatore conservava l’ingenito lampo in tutta la sua forza: quell’occhio, superiore a’ turbamenti de’ sensi, sembrava fiso in quel momento sui bastioni di Mantova.
I prodi della Grecia eroica salivano semidei nel cielo: quei de’ tempi moderni ebbero statue; ma nessun eroe antico o moderno ebbe in vita tanti baci cordiali dal popolo, quanti Garibaldi n’ebbe in un solo giorno.
E delle mie proprie sensazioni che dirò io?
Dirò che con occhi molli per lagrime di gioia sollevai lo sguardo e il pensiero a Dio, e dal fondo del cuore lo ringraziai di tre cose:
d’avermi salvata due volte dalla mia propria disperazione; d’avermi sottratta dal despotismo de’ preti e dalla persecuzione delle spie; d’avermi fatta spettatrice d’una fra le più grandi e commoventi scene della palingenesia cristiana.
Ma che importano d’ora innanzi le mie sensazioni? Stucchevole superfluità. Il dramma è giunto al termine: la mia storia finisce in questo giorno, che per l’Italia è giorno di nuova creazione. Quell’io che vestito di gramaglia si cattivò, o lettore, la tua pietà, solo perché all’intorno di lui tutto era lutto e silenzio, ora sparisce, siccome stella sopraffatta dal fulgore del sole nascente.
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