Prima di tutto, se il dottor C. avesse attentamente seguito il filo della tradizione romana dalla caduta dell'impero a tutto il secolo decimoterzo, ei non avrebbe detto che il Boccaccio fu il primo a far romane le nuove lettere; perché appoggiata d'una parte alle ruine del Campidoglio e al sorgente Laterano dall'altra avrebbe veduto dominar sempre su l'Italia la civiltà latina; perché nelle origini, nelle istituzioni, nelle glorie dei Comuni avrebbe veduto l'orgoglio del nome romano, lo avrebbe sentito nelle cronache, nei romanzi, nelle feste, nei canti; perché, a ogni modo, fu Dante il primo a far romana la letteratura dei Comuni italiani. E il quadro che il dott. C. delinea del Cinquecento è troppo ristretto, troppo vago, troppo caricato in certi punti e falso in certi altri, troppo copiato alla cieca dal libro XV della Storia Universale del Cantú, che tutti sanno non esatto né imparziale scrittore.
E ben si pareva, anche senza ch'ei ce lo dicesse, che il dott. C. non ha piú che scartabellato gli autori del Cinquecento: il che, se può bastare a buttar giú piú o meno calorose tirate, è poco a dar giudizio d'un secolo, il quale, se altro non avesse avuto che Venezia combattente contro tutta l'Europa, e le difese di Firenze e di Siena; se altro non avesse avuto che l'alterezza nazionale onde sotto il dominio straniero conservò purissimo il carattere paesano e ne improntò Francia Spagna e Inghilterra ad un tempo, e il senso squisitissimo e il culto amoroso del bello, che è sempre morale di per sé; se d'altri nomi non si gloriasse che del Machiavelli, del Guicciardini, dell'Ariosto, di Michelangelo, di Raffaello, di Tiziano, del Tasso, del Sarpi (non metto come il dott.
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