Ma nella seconda giornata del dramma, nella seconda fase dell'animo di Sigismondo, il Calderon fece prova di forza vera, ci lasciò un saggio del drammatico che in altri tempi e in altro paese ei sarebbe stato. Sigismondo è l'uomo piú originale e gigantesco che il Calderon abbia creato: han ragione i suoi parziali: non può né meno dalla lontana esser raffrontato agli altri personaggi di quelle sue commedie, i quali, sebbene innumerevoli e forniti da tutte le parti del mondo, hanno un'aria di famiglia che deve consolar il cuore agli spagnoli su la fedeltà della musa nazionale del loro poeta, perocché son tutti cavalieri castigliani ad un modo, cultori fedelissimi al tempo stesso del punto d'onore e delle acutezze. Sigismondo questa volta non agita pennacchi, non tocca la chitarra né sgrana rosari; trascorre solo un tratto a fare un complimento a una dama nello stile del Gongora: ma del resto, sfrenandosi su la società coll'impeto della natura e colla passione del male dalla società stessa prodotto, è un leone dell'Africa; si leva e guardasi intorno e sbadiglia, si raccoglie per meglio prendere le mosse del salto, poi si slancia e abbranca e acceffa, e scrolla ed esulta, e bramisce e ruggisce; tutti fuggono. Pur tuttavia, rileggendo quella seconda giornata, ché lo merita, si sente desiderio di qualcosa: vorrebbesi vedere, parmi, opposti al selvaggio alcuni di quegli ostacoli piú insidiosi e dissimulati della civiltà piú raffinata, alcuna di quelle reti sottilissime che in soggetto consimile il Voltaire ha teso intorno al suo Ingenuo e che l'Huron salta e rompe cosí bravamente: gli spaventi della religione, per esempio.
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