«Oh potessi vedere soltanto il cane Medoro! Egli mi preme assai piú degli altri cani i quali con rapidi salti han portato la corona a Filippo d'Orléans. Egli il cane Medoro portava al suo padrone il fucile e le cartucce, e quando il suo padrone cadde e fu con gli altri eroi sotterrato nella corte del Louvre, il povero cane restò giorno e notte su la tomba, immobile come una statua della fedeltà.» Giunto il Heine a Parigi volle andar a vedere questo Medoro, il quale fu cantato anche dal Delavigne ed era mantenuto a spese comuni della Guardia Nazionale nel Louvre; ed ecco che glie ne parve: «Non rispose affatto alla mia aspettazione. Non vidi che un brutto animale, nel cui sguardo nessun entusiasmo, anzi vi spuntava qualcosa di losco e di falso, qualcosa d'interessato e di furbacchiotto: direi anzi che v'era dell'industriale. Un giovine, uno studente, in cui m'incontrai, mi disse che quello non era il vero Medoro, ma un cagnaccio intrigante, un cane della dimani, che si faceva empiere il ventre e lisciare il pelo a spese della gloria del vero Medoro, mentre questo, dopo la morte del padrone, s'era modestamente ritirato, come il popolo che avea fatto la rivoluzione. Adesso il povero Medoro, aggiunse lo studente, erra forse per Parigi, senza un tozzo e senza un giaciglio, come molti eroi di luglio; perché il proverbio, che buon cane non trova mai un osso buono, qui in Francia è piú orribilmente vero che altrove: qui si mantengono nei canili caldi e si pascono della carne migliore mute di mastini, di cani da caccia e di altri quadrupedi aristocratici: qui voi vedete riposare su cuscini di seta, ben pettinati e profumati e rimpinzati di biscottini, lo spagnolo e la piccola levriera, che abbaiano contro ogni onest'uomo, ma che sanno adulare la padrona di casa e sono qualche volta iniziati nei vizi umani.
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