Con un garrir gentileI poggi intorno mólce
Lo spirar de le fresche aure soavi;
E, come è loro stile,
Ronzan le pecchie, e il dolceTolgono a i fior per arricchirne i favi.
Dal sen de gli antri caviAlterna eco gli accenti,
E a l'usignol risponde.
Che su romite sponde
Tempra in musiche note i suoi lamentiPer dar qualche conforto
Al grave antico torto.
Sotto le verdi foglieLa tortora coperta
Geme ferita d'amoroso strale:
La lodoletta scioglieSuoi trilli, e a l'aria aperta
Tremolando si libra alto su l'ale32.
La sesta strofe respira la più beata ingenuità arcadica, ingenuità di gente che sapeva bene di dire cose impossibili, inverisimili e un tantino anche, buttiamo la parola, ridicole, e pur se le spacciava come nulla fosse. Che i re abbiano piú d'una volta ragione d'invidiare le condizioni di tanti loro soggetti oscuri e pacifici, fu detto e ridetto e si dice e ridice. Ma che il Parini specifichi il caso in persona sua, che egli venga proprio a contarci che Federico II, Maria Teresa, Caterina di Russia, Luigi XV o il sultano avevano da invidiar lui, proprio in quella posizione nella quale si è messo da sé, questo passa la parte.
Qual porteranno invidiaA me, che di fior cinto
Tra la famiglia rusticaA nessun giogo avvinto,
Come solea in Anfriso
Febo pastor, vivrò,
E sempre con un visoLa cetra sonerò!
Cantabitis, Arcades, inquit, montibus haec vestris. E non voglion finire di ronzarmi nel pensiero due versi del Porta:
Gh'aveven tucc on liri e on ghitarrin,
Né se sentiva olter che frin frin33.
Fortuna che l'abate, mobile e impaziente come era, non durò molto a sonar la cetra con quel viso lí, e scrisse poco di poi La salubrità dell'aria.
| |
Parini Federico II Maria Teresa Caterina Russia Luigi XV Anfriso Arcades Porta
|